Il Newton e l'errore dei PowerPC

Mentre Intel spingeva affinchè adottassimo le loro cpu, noi prendemmo la strada dell’architettura PowerPC con IBM e Motorola. E questa, con il senno di poi, fu una decisione sbagliatissima. Se avessimo lavorato con Intel, avremmo potuto contare su una piattaforma molto più standardizzata che avrebbe fatto sicuramente la differenza per Apple durante gli anni ‘90

John Sculley

Qualcuno è stato portato allo sfinimento dal comportamento di Jobs.
Anche a te è capitato?

John Sculley: È normale subire la pressione di uno che ha quasi sempre ragione. Ciò che ho imparato nel mondo hi-tech è che c’è un confine sottilissimo fra il successo e il fallimento. È un’industria in cui è necessario prendere in continuazione dei rischi, in modo particolare se sei un’azienda come Apple che vuole cavalcare l’innovazione.
Le possibilità di stare da una parte o dall’altra di quel confine sono circa uguali. A volte... Anche Steve ha sbagliato tattica su alcuni aspetti.
Scelse di non mettere un hard disk nel Macintosh. Quando qualcuno gli chiese di motivare quello che era considerato un limite, lui fece volare un dischetto dall’altra parte della stanza dicendo: “Quello che ci serve sta tutto qui”.
Nello stesso tempo, Steve portò avanti lo sviluppo di AppleTalk e AppleLink.
AppleTalk era il protocollo di comunicazione che permetteva al Macintosh di usare una stampante laser e che di fatto gettò le basi per il desktop publishing.

AppleTalk fu una grande innovazione in quel periodo, come il Macintosh d’altronde.
È un altro esempio di risoluzione di un problema usando un approccio minimalista, un problema che nessun altro considerava tale e pensava di dover risolvere. Negli anni ‘80, Steve trovò delle soluzioni a dei problemi e solo 15, 20 anni dopo ci si rese conto che quelli erano i problemi giusti da risolvere.
La sfida consisteva nel fatto che noi eravamo almeno un decennio avanti rispetto a quelle tecnologie che necessitivano ancora di una certa evoluzione prima di poter essere considerate facenti parte del mercato di massa. In molti casi Steve ha precorso il suo tempo.

Guardando al passato, avermi assunto come CEO fu un grande errore. Non rappresentavo la prima scelta per Steve. Lui era la prima scelta. Ma il consiglio di amministrazione non lo avrebbe mai nominato CEO ad appena 25 anni.
Passarono in rassegna tutti i possibili candidati, i maggiori esponenti del settore hi-tech... alla fine, David Rockefeller, un’importante azionista Apple, suggerì di provare con altri settori industriali, e in questo caso l’uomo giusto sarebbe stato Gerry Roche.
Alla fine scelsero me. Arrivai qui che non ne sapevo niente di computer. L’idea era che Steve ed io avremmo dovuto lavorare in coppia. Lui era il riferimento tecnico ed io l’uomo del marketing.
Ho detto che fu un errore avermi nominato CEO perchè era Steve che aveva sempre ambito a quel ruolo. Sarebbe stato molto più giusto se il consiglio di amministrazione avesse detto: “Diamogli la possibilità di diventare CEO, poi ognuno si concentra sul proprio lavoro e si assume le proprie responsabilità.”

Bisogna ricordare che Steve era già il presidente del consiglio di amministrazione, il maggiore azionista Apple, era a capo della divisione Macintosh, insomma era sotto e sopra di me. Le gerarchie erano un po’ di facciata ma ritengo che non saremmo mai arrivati alla rottura se il consiglio di amministrazione avesse fatto un lavoro migliore, se non avesse solo pensato a nominare un CEO che andasse a genio a Steve, ma si fosse anche preoccupato di creare una situazione che avesse garantito stabilità nel lungo periodo.

Quando Steve lasciò la Apple (nel 1986, dopo che il consiglio di amministrazione rigettò la sua richiesta di sostituire Sculley come CEO), io avevo ancora molto da imparare sui computer. La prima cosa che decisi di fare fu quella di dare stabilità all’azienda, ma non sapevo in che modo farlo e come continuare nello stesso tempo ad avere successo.
Tutto ciò che continuavamo a fare alla Apple erano idee di Steve. Avevo compreso la sua metodologia e non ci fu mai l’intenzione di cambiarla. Così non dammo in licenza i prodotti e ci concentrammo sul design industriale. Creammo internamente una divisione specializzata nel design che esiste ancora oggi. Progettammo il PowerBook. E QuickTime. Tutte queste cose furono sviluppate con la filosofia di Steve... le stesse linee guida valevano per il marketing tanto quanto per l’evoluzione dei prodotti.

Tutte le idee di design erano chiaramente di Steve. Per tutto il periodo in cui sono rimasto alla Apple, lui è l’unica persona a cui può essere dato credito per il lavoro che è stato fatto. In realtà ho fatto due grandi errori che ancora rimpiango e che penso avrebbero potuto cambiare le sorti di Apple. Il primo fu alla fine del ciclo di vita dei processori Motorola... Il team di esperti a cui avevo affidato il compito di studiare la situazione alla fine mi disse che non c’erano sostanziali differenze fra le architetture RISC che potevamo scegliere di adottare, ma dissero anche di stare alla larga dai processori CISC.

Così, mentre Intel spingeva affinchè adottassimo le loro cpu, noi prendemmo la strada dell’architettura PowerPC con IBM e Motorola. E questa, con il senno di poi, fu una decisione sbagliatissima. Se avessimo lavorato con Intel, avremmo potuto contare su una piattaforma molto più standardizzata che avrebbe fatto sicuramente la differenza per Apple durante gli anni ‘90, quando i loro processori raggiunsero la potenza necessaria per supportare adeguatamente il software e permisero a Microsoft di imporre sul mercato il suo Windows 3.1.
Grazie alla potenza elaborativa delle nuove cpu, non c’era più bisogno di legare a doppio filo hardware e software per fare eseguire delle subroutine in hardware, come aveva fatto Apple in passato. I microprocessori erano ormai diventati un componente standard.

Avevamo sbagliato totalmente la piattaforma. Intel avrebbe investito in quegli anni 11 miliardi di dollari per sviluppare i suoi processori e renderli capaci di gestire adeguatamente la grafica... fu una decisione tecnica sciagurata. Io non avevo le competenze per decidere così mi fidai del consiglio degli “esperti” a cui mi ero rivolto. L’altro grande errore da parte mia, fu il fatto di non avere richiamato Steve.
Volevo lasciare la Apple. Dopo 10 anni, non volevo starci un momento di più. Volevo tornare nella east coast. Dissi al consiglio di amministrazione che volevo lasciare il mio incarico e che forse sarei andato a lavorare per IBM. Mi chiesero di restare. Io accettai e alla fine mi cacciarono.

Non ne potevo veramente più. Gli amministratori decisero che dovevamo vendere Apple, così nel 1993 mi fu dato quest’ultimo incarico. Provai a vendere Apple alla AT&T, ad IBM e ad altri colossi ma non riuscii a trovare nessun compratore. Tutti pensavano che il rischio fosse troppo alto con Microsoft e Intel che ormai dominavano il mercato.
Ma se io avessi avuto un po’ di buon senso, avrei dovuto dire: “Perchè non ci rivolgiamo all’uomo che ha creato tutto questo e cerchiamo di fare chiarezza? Perchè non chiediamo a Steve di tornare a guidare l’azienda?”
Oggi appare scontato che quella sarebbe stata la cosa giusta da fare. Ma non fu fatto, e ho un grande rimpianto per questo. Avrebbe risparmiato alla Apple anni difficilissimi durante i quali fu messa seriamente a rischio la sua esistenza.

Uno dei motivi che portarono al mio licenziamento fu una spaccatura interna alla Apple. C’era chi sosteneva che Apple non doveva limitarsi ai personal computer. Volevano aprire l’architettura e darla in licenza. E c’era chi, come me, voleva mantenere la filosofia che da sempre aveva contraddistinto l’azienda - puntare sull’esperienza utente e il design - e contestualmente migrare verso una nuova generazione di prodotti, come il Newton.
Ma il Newton fallì. Andava in una nuova direzione, era un prodotto totalmente differente.

Il risultato fu il mio licenziamento. Seguirono altri due CEO, entrambi esperti di tecnologia... ma che non curarono affatto il design industriale. Apple sfornava ormai dei computer che non sembravano avere nulla di particolare rispetto a qualsiasi altro computer sul mercato e non curava più la pubblicità. Avevano appiattito tutto. Apple aveva perso la sua anima ed era sull’orlo della bancarotta. Sono fermamente convinto che se non fosse tornato Steve - o anche se avesse aspettato solo altri sei mesi - oggi Apple non esisterebbe più. Sarebbe stata spazzata via in breve tempo.

Cosa fece Steve? Tornò indietro, esattamente nel punto in cui aveva lasciato - come se non fosse mai andato via. Durante tutto il mio periodo alla Apple, cercai di seguire la sua filosofia e la sua metodologia per ottenere prodotti con un buon design, ma purtroppo io non mi dimostrai bravo quanto lui. Il tempismo nella vita è tutto. Non era ancora giunto il momento per potersi rivolgere al mercato consumer e anche Steve alla NeXt non è che avesse avuto maggiore fortuna di noi alla Apple. In una cosa NeXt fece sicuramente meglio: progettò il miglior sistema operativo di nuova generazione, dal quale derivò (dopo il ritorno di Steve e l’acquisizione di NeXt) il nuovo sistema operativo di Apple.

APPLE NEWTON

Si dice che Jobs ha soppresso il Newton - un progetto a cui tenevi particolarmente - per vendetta. Pensi veramente che l’abbia fatto per vendetta?

John Sculley: Probabilmente si. Lui non vuole parlarne con me, così non so rispondere con certezza. Il Newton era una grande idea, ma era troppo avanti per il suo tempo. E c’è da dire anche che il Newton salvò Apple dalla bancarotta. Forse qualcuno ignora il fatto che per realizzare il progetto del Newton, noi abbiamo dato vita ad una nuova generazione di microprocessori. Abbiamo lavorato al fianco di Olivetti e di Herman Hauser, il fondatore della Acorn computer.

Herman progettò il processore ARM (Acorn RISC Machine), Apple e Olivetti lo realizzarono.
Fu fondata una nuova azienda proprio col nome ARM (l’acronimo cambiò in Advanced RISC Machine) di cui Apple e Olivetti detenevano il 47%
Una nuova generazione di microprocessori fu progettata attorno al Newton, per soddisfare le esigenze di quel nuovo tipo di dispositivo portatile miniaturizzato, che faceva un largo uso di grafica ed era in grado di fare molte cose interessanti... ma quando la Apple si trovò in una situazione finanziaria disperata, fu costretta a vendere la sua quota in ARM per 800 milioni di dollari. ARM era destinato a diventare un colosso da 10 miliardi di dollari, e il suo valore attuale è di molto superiore. Ma quella liquidità permise ad Apple di rimanere in vita. Così, se il Newton può essere considerato un fallimento come prodotto, con una perdita di circa $100 milioni, l’investimento sui processori ARM ha ampiamente ripagato il suo sviluppo.

ARM è diventata l’Intel dei nostri giorni, è il tipo di cpu che equipaggia una marea di dispositivi mobili, inclusi iPod e iPhone di Apple.
Apple non è in realtà un’azienda che sviluppa tecnologie. Apple è un’azienda di design.
Ad esempio, un iPod è costituito da una serie di tecnologie che Apple ha acquistato e poi assemblato insieme. Anche quando Apple creò il Macintosh, tutte le idee originali provenivano dalla Xerox ed Apple reclutò diversi uomini chiave dello Xerox PARC.
Ogni prodotto Apple fuori dagli schemi e davvero innovativo, la prima volta ha fallito. Lisa ha fallito prima del Mac. Il Macintosh portatile ha fallito prima del PowerBook. Quando si lanciano dei prodotti non è così inusuale fallire. Del Newton sbagliammo la campagna pubblicitaria, sovraccaricandolo di aspettative e, di fatto, celebrandone il fallimento.

Voglio chiederti qualcosa sugli eroi di Jobs.
Tu dici che Edwin Land fu uno dei suoi eroi?

John Sculley: Si, ricordo quando Steve ed io andammo a trovare il Dr. Land.
Land aveva lasciato la Polaroid. Aveva il suo laboratorio a Charles River, Cambridge.
Fu un pomeriggio fantastico, eravamo in una grande sala conferenze seduti di fronte ad un tavolo vuoto. Dr. Land e Steve parlarono tutto il tempo con gli occhi rivolti al centro del tavolo.
Dr. Land disse: “Ero in grado di immaginare la fotocamera Polaroid proprio così come doveva essere. Quella visione mi appariva reale, come se fosse lì davanti a me già prima di averne costruita una”.
E Steve: “Si, esattamente come è successo a me con il Macintosh”.
Su questo genere di prodotti è impossibile compiere una ricerca di mercato preventiva, è necessario crearli e solo dopo averli presentati al pubblico puoi chiedere “Allora, che ne pensate?”
Entrambi avevano la particolare abilità non di inventare i prodotti, ma di scoprirli. Dicevano che certi prodotti erano sempre esistiti - solo che nessuno se ne era mai accorto prima di loro. La Polaroid e il Macintosh erano sempre esistiti. Loro li avevano scoperti.
Steve aveva una grande ammirazione per il Dr. Land e rimase affascinato da quell’incontro.

Di quali altri eroi ti ha parlato?

John Sculley: Steve divenne amico di Ross Perot. Venne diverse volte alla Apple e visitò la fabbrica dei Macintosh. Ross era un imprenditore, un ideatore di sistemi, creò EDS (Electronic Data Systems). Credeva nelle grandi idee che potevano cambiare il mondo. Lui era un altro dei suoi miti. E poi c’era Akio Morito della Sony di cui abbiamo già parlato.

E cosa ci dici della Hewlett-Packard? Woz lavorò lì per un breve periodo e Jobs ha dichiarato che durante i primi anni HP ebbe una grande influenza.

John Sculley: HP non fu mai un modello per Apple. Non l’ho mai sentito dire. Bill Hewitt e David Packard avevano quel tipico modo amichevole di rapportarsi noto come “HP way”, erano molto aperti ma HP era fondamentalmente un’azienda fatta da ingegneri. Apple è invece un’azienda basata sui designer. HP in quel periodo non è che si fosse particolarmente contraddistinta per il design dei sui prodotti. No, non penso che HP sia stata un modello per Apple.

Anche Jobs ha adottato il “management by walking around”, vale a dire quel modo di dirigere il lavoro stando a stretto contatto con i dipendenti e interagendo costantemente con loro?

John Sculley: Certamente. Tutti l’hanno fatto nella Silicon Valley. Il contributo di HP è stato determinante sotto questo aspetto. Ci sono delle caratteristiche comuni a tutte le startups della Silicon Valley e il modo di lavorare è sicuramente una di queste. È una chiara eredità di HP.
HP ha inventato questo stile di management. Ma sempre ad HP è attribuibile l’usanza di porre gli ingegneri in cima alla piramide aziendale.
Anche per Apple gli ingegneri sono importanti ma al vertice della gerarchia sono messi i designer. Anche se consideriamo il software, i migliori talenti come Bill Atkinson, Andy Hertzfeld e Steve Capps sono chiamati software designers e non software engineers proprio perchè stanno applicando al software i principi del design.
Non stanno solo scrivendo del codice che funziona. Deve essere un bel codice.
Le persone che lo useranno dovranno ammirare la sua bellezza. È come essere degli scrittori. Alle persone piace lo stile che adotta un qualche scrittore. Per questo, anche quando si scrive del codice bisogna rimanere fedeli al proprio stile.

Steve Jobs è famoso per essere un attento studioso di design. È vero che si fermava a guardare i dettagli di tutte le Mercedes nel parcheggio della Apple?

John Sculley: Steve era un fantastico osservatore, in particolare di come erano stampate le cose: il tipo di carattere usato, i colori, il layout.
Dopo che Steve lasciò la Apple, ricordo di aver avuto un po’ di problemi nell’aprire la filiale in Giappone. Inizialmente avevamo un giro d’affari di soli 4 milioni di dollari, eravamo stati citati dalla Federal Trade Commission e tutti dicevano che era un’unutile perdita di tempo e di denaro e che sarebbe convenuto chiudere quell’ufficio. Nel giro di quattro anni i nostri ricavi erano cresciuti a 2 miliardi di dollari ed eravamo diventati la seconda azienda produttrice di computer in Giappone.
Gran parte di questo successo era dovuto al fatto che avevamo imparato come dovevano essere fatti i prodotti per i giapponesi.

Noi assemblavamo i prodotti a Singapore e poi li spedivamo in Giappone. La prima cosa che l’utente doveva notare quando apriva la scatola era il manuale, e quando quest’ultimo era girato nel verso sbagliato, ciò era sufficiente a far rimandare indietro l’intero lotto.
Negli Stati Uniti non c’era mai capitata una cosa del genere. Se metti il manuale in un verso o nell’altro - che differenza fa?
Beh, in Giappone fa un’enorme differenza. I loro standard sono differenti dai nostri.
Da quell’esperienza Apple aveva imparato che l’attenzione ai dettagli può essere sempre migliorata. “Open me first”, il modo in cui è progettata la scatola, le linee di piegatura, la qualità della carta e della stampa - sono stati fatti dei straordinari passi avanti. Sembra che si stia acquistando qualcosa da Bulgari o qualche altra grande firma della gioielleria.

Quando nei primi anni ‘80 stavamo pensando di adottare un design unificato, il così detto “Snow White design”, prima di assumere Hartmut Esslinger dalla Frog design, abbiamo a lungo studiato i designer italiani, in particolare i designer di automobili, per la finitura dei materiali e i colori usati. In quel periodo, a nessuno nella Silicon Valley sarebbe saltato in mente di fare una cosa del genere, e di certo non fu un’idea mia, era Steve che prendeva queste iniziative.
Quando Steve lasciò la Apple e mi trovai solo al timone della compagnia, fui molto criticato. Dicevano: “Come si può affidare la guida di un’azienda di computer a una persona che non ne capisce niente di computer?”. Ciò che in molti non comprendevano era che Apple non doveva essere considerata solo un’azienda di computer. Il design e il marketing erano ormai degli elementi fondamentali. Usavano definirci “un’agenzia di pubblicità ad integrazione verticale” e questo era proprio un colpo basso. Gli ingegneri non avrebbero potuto pensare un’offesa peggiore. E poi cosa è successo? Che oggi tutti si comportano così, è diventato un modello da seguire.