La filosofia di Steve Jobs

LEANDER KAHNEY È L’AUTORE DEL BESTSELLER CULT OF MAC E DEL RECENTE INSIDE STEVE’S BRAIN. SUL SITO CULTOFMAC.COM, DI CUI È ANCHE EDITORE, HA RESO DISPONIBILE L’INTERVISTA INTEGRALE A JOHN SCULLEY, EX CEO DI APPLE

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Steve Jobs e John Sculley presentano il Macintosh

Hai parlato della “metodologia di Steve Jobs”. In cosa consiste?

John Sculley
: Faccio una premessa per chiarire lo scenario. La prima volta che incontrai Jobs, più di 25 anni fa, lui stava già definendo i principi fondamentali di quella che io chiamo “Metodologia di Steve” per creare prodotti vincenti.  Steve ha amato sempre prodotti di bell’aspetto e aveva un occhio particolare per i materiali. Quando venne a trovarmi a casa mia rimase affascinato dalle maniglie delle porte. Lui aveva studiato design industriale, ed era quello che veramente avevamo in comune, non i computer.
A dire il vero non ne capivo quasi nulla di computer all’epoca. La rivoluzione dei personal computer era già partita ma noi condividevamo l’idea che bisognava puntare sul design e Steve in particolar modo sosteneva che bisognava iniziare a progettare le cose mettendo al centro di tutto l’esperinza dell’utente.
Guardava sempre le cose da questa prospettiva: “Come sarebbe stata l’esperienza utente?”.
A differenza della maggior parte degli addetti al marketing che facevano indagini di mercato e interrogavano i clienti cercando di capire cosa volessero, Steve non credeva in questo sistema.
“Come posso chiedere alla gente come dovrebbe essere l’interfaccia grafica di un computer se nessuno ha la più pallida idea di cosa sia l’interfaccia grafica? Nessuno ne ha mai vista una prima d’ora.”
Per esempio, sosteneva che mostrando a qualcuno un generico calcolatore non si sarebbe potuta ottenere alcuna indicazione sulla futura evoluzione del personal computer, era un salto troppo grosso.
Steve guardava le cose dal punto di vista dell’utente e nel design industriale è estremamente importante tener conto dell’esperienza utente.
Mi voleva alla Apple perchè credeva che i computer sarebbero diventati presto come un qualunque altro bene di consumo. Questa era un’idea piuttosto stravagante nei primi anni ‘80 perchè i personal computer erano ancora considerati come semplici versioni ridotte dei grandi mainframe. E anche IBM continuava a pensarla così.
Qualcun altro li considerava macchine da gioco, alla stregua delle prime console, per via del fatto che potevano essere collegati alla tv e usati anche per i videogiochi... Ma Steve stava pensando qualcosa di completamente differente.
Sentiva che i computer avrebbero cambiato il mondo e sarebbero diventati quella che lui chiamava “la bicicletta per la mente”, uno strumento incredibilmente potente che avrebbe esaltato le potenzialità che gli uomini non avevano neanche mai sognato di possedere.

Non si trattava di macchine da gioco. Non si trattava di computer in versione ridotta...
Egli aveva un’enorme visione. Ma era anche una persona che curava la precisione dei dettagli di ogni singolo passo verso quella visione. Era metodico e attento ad ogni particolare, un perfezionista insomma.
Se torniamo ai tempi dell’Apple II, Steve fu il primo a mettere il computer in un case di plastica, che all’epoca era chiamata plastica ABS, inserendo all’interno anche la tastiera. Oggi sembra un’idea semplice ma quando fu creato il primo Apple II, nel 1977, segnò l’inizio della metodologia adottata da Steve, che proseguì con il Macintosh e i computer NeXT e che ancora continua con i nuovi iMac, iPod e iPhone.
Ciò che rende la filosofia di Steve differente da qualunque altra e che lui è fermamente convinto che le decisioni fondamentali non riguardano le cose che scegli di fare ma quelle che scegli di non fare. È un minimalista.
Mi ricordo che quando andai a casa di Steve, mi sorpresi di vederla quasi del tutto priva di arredamento. Aveva una foto di Einstein, del quale aveva grande ammirazione, una lampada Tiffany, una sedia e un letto. Non gli piaceva avere troppe cose attorno ma prestava una cura incredibile in quelle che sceglieva. La stessa cosa valeva per Apple.
Se il punto di vista doveva essere quello dell’utente, per chi crede nel design industriale, il termine di paragone non erano tanto i prodotti di altre aziende tecnologiche ma cose del tutto differenti come potrebbero essere dei gioielli o, per tornare all’esempio delle mie porte con le belle maniglie di ottone finemente lavorato, dispositivi meccanici di precisione.

Da quando conosco Steve, questa sua propensione non è mai cambiata e si riflette su tutto quello che fa.
La prima volta che vidi il Macintosh - eravamo ancora in una fase progettuale - era in pratica costituito da una serie di componenti non assemblati. Non c’era niente ma Steve aveva l’abilità di spronare le persone le persone a dare il massimo, a coinvolgerle nel progetto grazie al suo carisma, a farle credere nella sua visione anche prima dell’esistenza del prodotto stesso.
Quando incontrai i componenti del team al lavoro sul Mac, che poi sarebbe cresciuto a oltre 100 persone, l’età media era di 22 anni.
Queste persone non avevano mai partecipato allo sviluppo di un prodotto commerciale prima di allora ma avevano piena fiducia in Steve e nella sua visione. Lui aveva l’abilità di lavorare in parallelo su più livelli. L’aspetto principale, il concetto generale, era “cambiare il mondo”. Il resto del lavoro consisteva nella progettazione del prodotto vero e proprio e nella cura dei dettagli dell’hardaware e del software.

In ogni caso, Steve reclutava le persone migliori per il suo team, non delegò mai a nessun altro questo compito.
Preferiva che il suo gruppo di lavoro fosse piccolo ed efficiente, non aveva stima delle grosse organizzazioni che chiamava in senso dispregiativo “bozos” giudicandole inefficaci e piene di burocrazia.
Il Mac team crebbe fino a un centinaio di persone. Steve aveva imposto questo limite.
“Non sono in grado di ricordare più di cento nomi e voglio lavorare solo con gente che conosco di persona. Se il gruppo diventa più grosso siamo obbligati a cambiare struttura e a cambiare modo di lavorare. Ma io preferisco continuare così, in questo modo ho tutto a portata di mano.”  E per tutto il tempo che l’ho conosciuto alla Apple, ha sempre continuato a comportarsi così.

Oggi Apple ha migliaia di dipendenti. Come si è comportato Steve Jobs quando l’azienda ha cambiato proporzioni, diventando più grande?

John Sculley: Steve diceva “L’azienda può crescere, ma non il Team del Mac. Apple ha uffici centralizzati per le vendite e l’amministrazione ma questa è una divisione nata per sviluppare un prodotto e non è necessario un gruppo troppo folto per fare un gran prodotto, e questo vale in modo particolare per i prodotti hi-tech.”
Comunemente si pensa che siano necessari centinaia di programmatori per sviluppare un sistema operativo ma da quanto ho visto non è così, erano un piccolo team. Bisogna immaginarlo come l’atelier di un artista dove Steve è il “maestro” che cammina avanti e indietro per lo studio, osserva l’avanzamento del lavoro, da consigli e giudizi e molto spesso i suoi interventi comportano la bocciatura di qualcosa e il suo completo rifacimento.

Ricordo che spesso ci trattenevamo fino a tarda notte perchè gli sviluppatori in genere si svegliavano verso l’ora di pranzo e preferivano lavorare di sera. Gli ingegneri mostravano a Steve il codice che avevano scritto ma dopo aver esaminato il lavoro la sua espressione ricorrente era: “Ancora non va bene.” Aveva la capacità di spronare le persone oltre i loro limiti, ottenendo dei risultati di cui loro stessi non sapevano di essere capaci. Steve otteneva ciò che voleva sostanzialmente alternando due atteggiamenti: da un lato sapeva essere carismatico e motivava le persone che lavoravano con lui facendole sentire parte di un progetto rivoluzionario, dall’altro era quasi spietato quando non approvava un lavoro finchè non raggiungeva il livello di perfezione che aveva in mente - come fu, appunto, nel caso del Macintosh.

Le decisioni di Steve Jobs erano tutte accuratamente ponderate o qualche volta erano frutto di improvvisazione?

John Sculley: No, Steve era incredibilmente metodico. Aveva sempre una lavagna bianca nel suo ufficio, ma lui non l’usava, non era particolarmente bravo a disegnare. Tuttavia aveva un gusto incredibile. Questo era ciò che lo rendeva diverso da altre persone come Bill Gates - Bill, ad esempio, era una persona brillante ma non aveva un gran gusto. Era bravissimo a dominare il mercato ma quando doveva sistemare le cose le metteva dove aveva spazio. Steve non si comportava così, lui credeva nella perfezione. Steve aveva già una grande opportunità di presentare un nuovo tipo di prodotto in un mercato ancora vergine, ma inoltre, lo faceva con un punto di vista avvantagiato, quello del designer.

Ci sono differenti tipologie di CEO - quelli che sono grandi leader, CEO che sono dei veri artisti, grandi negoziatori, grandi motivatori - ma c’è una particolare abilità che ha solo Steve, lui è un grande designer.
Per essere compresa a pieno, ogni cosa alla Apple va vista attraverso la lente del design.
Questo vale per il look & feel dell’esperienza utente, per il design industriale, per la progettazione del software ma anche per cose come l’alloggiamento delle schede.
Agli occhi di Steve, anche la scheda madre doveva apparire bella anche se il Macintosh era stato costruito in modo tale che fosse impossibile per l’utente aprirlo e mettere mano allo componentistica interna.
Il suo livello di perfezione prevedeva un design gradevole anche di quei particolari che non dovevano essere in vista.
Applicò questa sua filosofia anche alla progettazione della fabbrica destinata alla produzione dei Macintosh. Era tutto automatizzato in una catena di montaggio robotizzata, solo l’assemblaggio finale ed i test di routine richiedevano intervento manuale. Forse oggi questo fatto non desta più molto stupore ma 25 anni fa anche il direttore della General Motors venne a visitare quel nostro stabilimento di produzione. Era tutto così ben pensato da rappresentare un esempio di efficienza. Se una fabbrica non è organizzata può richiedere un numero di operai più alto dei pezzi prodotti.

Se guardiamo la situazione attuale, la tecnologia ha fatto passi da gigante, è diventata di massa, è miniaturizzata ed economica. Apple non costruisce più i propri prodotti.
Quando ne ero responsabile, qualcuno definiva la Apple come “un’agenzia di pubblicità ad integrazione verticale” e non era di certo un complimento.
Oggi tutti si compartano così. Lo fa Apple. Lo fa HP. La maggior parte dei produttori delega la produzione in outsourcing ad altre aziende (EMS) che forniscono il servizio di assemblaggio di componenti elettronici.

 Quella con Nike è una buona analogia?

John Sculley: Si, penso di si, Nike può essere un buon paragone come tipologia di azienda. Come pure tutte le aziende giapponesi specializzate in elettronica di consumo.
Fra queste, l’unica che Steve ammirava era la Sony. Più di una volta abbiamo fatto visita ad Akio Morita, anche lui aveva credeva nell’alta qualità degli standard e Steve lo stimava per la cura che metteva nei suoi prodotti.
Ricordo quando Akio Morita omaggiò me e Steve di uno dei primi Sony Walkman. Nessuno aveva mai visto prima di allora una cosa del genere perchè nessuno aveva mai commercializzato un prodotto simile. Parlo di circa 25 anni fa, Steve ne rimase affascinato. La prima cosa che fece, fu smontare il Walkman in ogni sua più piccola parte, per osservarne i dettagli e capire come era costruito.
Quando andammo a visitare le fabbriche di Sony, Steve rimase colpito dalla loro organizzazione. Il personale indossava tute di diverso colore. C’erano persone vestite di rosso, altre di verde, altre di blu, a secondo della loro mansione. Tutto in ordine, tutto pulito. Queste cose influenzarono enormemente Steve.

E la fabbrica dei Mac era esattamente così. Noi non avevamo le uniformi colorate ma probabilmente quella fabbrica era ancora più efficiente, con soluzioni più eleganti di quelle viste alla Sony. È interessante notare che all’epoca il punto di riferimento per Steve era la Sony. Il suo modello era Sony. Non voleva essere come IBM, non voleva essere come Microsoft. Lui voleva essere come Sony.
La sfida per Apple consisteva all’epoca nel produrre dispositivi digitali sul modello di Sony in un mercato che era ancora del tutto “analogico”. Un interessante libro di C.K. Prahalad “Competing for the Future” (1994) studia l’approccio delle aziende giapponesi.
La strategia nipponica è sempre partita dal mercato dei singoli componenti. L’obiettivo iniziale è quello di dominare un settore, ad esempio quello dei sensori, delle memorie, dei dischi rigidi o di qualsiasi altra tipologia. E quando le aziende giapponesi si sono sentite abbastanza forti sul mercato dei componenti, hanno iniziato a lavorare ad un prodotto finale destinato al mercato consumer.
Questo ha funzionato benissimo con l’elettronica analogica di cui avevano il diretto controllo sul costo dei componenti discreti, avevano quindi una posizione di vantaggio e potevano concentrarsi sull’affinamento del processo produttivo.
Invece non ha funzionato affatto con l’elettronica digitale perchè sono partiti dal lato sbagliato della catena. Perchè in questo caso non bisognava partire dai componenti ma dall’esperienza utente. Negli ultimi 15 anni si è affermata l’industria dell’elettronica digitale, Sony è andata incontro a gravi problemi e sta ancora annaspando. Loro che avevano nell’organizzazione una chiave del loro successo, sembrano totalmente spiazzati. I responsabili del software non parlano con i responsabili dell’hardware che a loro volta non parlano con i designer.
Il problema è che sono diventati troppo grandi e hanno troppa burocrazia.
Sony avrebbe potuto produrre l’iPod ma non è stata in grado di farlo - l’ha fatto Apple. L’iPod è il perfetto esempio della metodologia di Steve che pone al centro l’utente e guarda il dispositivo nel suo complesso. Steve non è un designer puro e semplice, lui ha in testa come deve funzionare tutto il sistema. Questa è un aspetto che difficilmente può essere trovato in altre aziende; generalmente tutti si concentrano sul proprio prodotto e delegano all’esterno ogni altra cosa. Nel caso dell’iPod invece, la rete di distribuzione che si ramifica fino in Cina, giusto per fare un esempio, è così sofisticata come il dispositivo stesso. Gli stessi standard di perfezione sono applicati sia al design del prodotto che alla sua commercializzazione. È un modo completamente differente di vedere le cose.

Da dove nasce l’idea di avere il controllo totale sul prodotto? Perchè c’è la necessità di blindare il sistema?

John Sculley: Steve sosteneva che, con un sistema aperto, qualcuno avrebbe inevitabilmente iniziato a fare delle modifiche e che una serie di cambiamenti, anche piccoli, avrebbero potuto compromettere quel tipo di esperienza utente che lui voleva fornire.

Ma questo tipo di controllo si estende ad ogni aspetto del prodotto. Anche come si deve aprire la scatola è deciso da Steve Jobs.

John Sculley: La prima versione del Mac non aveva un vero e proprio sistema operativo. Qualcuno ancora mi chiede “Perchè non avete dato in licenza il sistema operativo?” La risposta è semplice: perchè non c’era. Tutto funzionava grazie a un’integrazione strettissima tra hardware e software. I microprocessori dell’epoca erano molto meno potenti di quelli attuali e visualizzare la grafica a video consumava quasi tutte le risorse della cpu ed era necessario ricorrere ad altri chip dedicati per rendere possibili altre funzioni. Si faceva in pratica un largo uso delle cosidette “chiamate alla ROM”, ne venivano usate circa 400, che erano delle piccole subroutine che non potevano essere eseguite in tempo reale.
Le stesso software non avrebbe potuto funzionare su una piattaforma hardware che non fosse esattamente uguale a quella messa a punto da Apple. È da sottolineare il fatto che il processore del Mac, un Motorola 68000, era accreditato di meno di 3 MIPS (milioni di istruzioni al secondo), quando oggi, un qualsiasi dispositivo digitale, anche un orologio, è equipaggiato con cpu almeno cento volte più potenti. Giusto per fare un paragone, oggi l’iMac entry-level usa una cpu Intel Core i3 capace di 40.000 MIPS.

È difficile da comprendere come sia stato possibile all’epoca ottenere tanto con delle risorse così scarse. Anche le stesse aziende produttrici di computer negli anni ‘80 pensavano che fosse letteralmente impossibile creare qualcosa del genere prima di aver visto il Macintosh. Negli anni ‘90, grazie alla legge di Moore e alle varie evoluzioni, con la tecnologia sempre più diffusa e standardizzata, iniziava ad apparire chiaro come sarebbero dovuti essere i prodotti digitali destinati al mercato di massa, ma nessuno in pratica li aveva ancora realizzati.
Solo col nuovo millennio avvenne una sorta di convergenza fra la miniaturizzazione e la riduzione del costo dei componenti, che rese possibile introdurre le nuove tecnologie in prodotti consumer. I singoli dispositivi improvvisamente raggiunsero delle performance adeguate per poter essere impiegati nella costruzione di quelli che abbiamo chiamato prodotti digitali per il mercato di massa.

La metodologia di Steve era già stata messa a punto 25 anni prima e bastava seguire i sui principi: mettere al primo posto l’esperienza utente, focalizzarsi su poche funzioni essenziali, considerare sempre il prodotto nel suo complesso, non fare compromessi, non guardare quello che fanno le altre aziende - tutti questi criteri nessuno li stava considerando. Ciò che appariva evidente a tutti era che i prodotti aumentavano la loro potenza ed erano sempre più economici da costruire. Prendiamo i lettore MP3. Quando Steve presentò l’iPod c’erano già migliaia di lettori MP3 sul mercato, ma oggi a stento ce ne ricordiamo qualcuno.
Avere il controllo totale sul sistema e blindare il dispositivo fu la scelta vincente di Steve.

E cosa c’entra questo con l’esperienza utente?

John Sculley: L’esperienza utente va sempre vista considerando l’intero sistema, sia che si tratti di un software di desktop publishing o di iTunes, fa tutto parte di un’unico prodotto. Così come l’assemblaggio, la catena di distribuzione, il marketing, i punti vendita. Io stesso sono stato voluto alla Apple perchè ero un uomo di marketing, ero laureato in design industriale e sapevo vendere prodotti. Non perchè ne capissi qualcosa di computer.



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